E’ la “Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne”, era forse a quest’ora della notte. L’unica in cui si nasconde meglio la vergogna di averla vissuta.
Un terzo delle donne italiane, straniere e migranti, subisce violenza fisica, psicologica, sessuale, spesso tra le mura domestiche e davanti ai propri figli. Dall’inizio dell’anno nel nostro Paese sono state uccise, con movente di genere, circa 123 donne.
Poi qualcuno ti racconta che…
“Quando vedi tuo padre prendere un coltello e portarselo di là davanti alla televisione, dopo aver litigato con tua madre, e dopo un po’, tu – bambina di 8 anni, forse 7, dannata memoria – lo vai a riprendere, facendo attenzioni a non fare troppo rumore, in silenzio, muovendoti anzi non muovendoti troppo e lo riporti in cucina, nel suo cassetto. Esattamente al suo posto. Almeno qualcosa in quella casa era in ordine. Ecco quando hai questi ricordi quel numero lo guardi con molto distacco.
Perchè tua madre, ce l’ha fatta. Perchè tu e tuo fratello siete sopravvissuti. Perchè sentivi sempre giustificare quegli episodi con la parola “malattia”. E’ malato, non ce la fa, all’istituto di igiene mentale hanno detto che è malato. E’ colpa della suocera. Era colpa di tutti, tranne di chi quel coltello lo aveva preso. Era un continuo togliere responsabilità a qualcuno per i suoi gesti violenti e le sue parole omicida.
Quando sei bambina, dovresti essere innocente, dovresti poter vivere tutto con entusiasmo e fantasia. Quel dovresti, quella sfumatura di felicità intravista alla TV o da qualche amichetto rendeva tutto più amarognolo. Ogni sera, al momento di andare a letto, era la paura a vincere su tutto. Non potevo dormire, non potevo sognare. Aspettavo, quell’esplosione di rabbia e violenza che mi faceva alzare di botto per mettere il mio corpo, destinato a correre e saltare felice, tra i miei genitori, che avrebbero dovuto proteggermi. Il mio corpo, invece, proteggeva loro. Uno scudo bambino alla terribile verità che nascondevano al mondo. Difendevo il mio amore più grande, mia madre. Che, mi vergogno a dirlo, pensavo lo meritasse, era sempre fuori, al lavoro e lasciava mio padre, da solo. Come mi ripeteva ogni momento.
Era colpa di mia madre. Era colpa sua. Se non c’era non ci amava.
Ho ricordi confusi di onnipotenza, di discorsi terribilmente saggi a 6 anni in cui spiegavo dettagliatamente perché il divorzio è preferibile alla convivenza quando si è infelici. Ho ricordi di responsabilità grandi come macigni. Non ero forse intelligente? Potevo salvare tutti. O anche no. Perché tutte le mie spiegazioni erano inutili. Mio padre era malato e mia madre colpevole. La coppia assurda.
Poi improvvisamente è cessato tutto. Di colpo. Erano di nuovo felici, almeno per loro. Alcune condizioni al contorno erano cambiate. Niente più malattia o colpa. Solo il silenzio e la finta manipolatoria di una normalità non sana. E l’assurdità della situazione era un coltello nella mia mente.
Gli anni passavano, io crescevo e cercavo parole e confronti che mi venivano negati, semplicemente non era vero. Erano stati episodi. Erano memorie mie ingigantite. Era colpa mia se avevo immaginato queste cose.
Poi una sera di un Natale, mio padre si è scusato, piangendo e in ginocchio. Qualche forma di risarcimento quell’uomo che ho amato più di me stessa me lo ha dato. Erano stati anni sereni, anche felici, a modo nostro. Eppure io non dimenticavo, non perdonavo chi sapeva e non mi aveva protetto.
Non c’è un lieto fine a questa storia. Mio padre, un uomo sicuramente debole, ma estremamente lucido mi ha restituito una parte del mio passato. Il resto del mondo, invece, ha continuato a fare finta di nulla. Era malato, i panni sporchi si lavano in casa.
A casa di chi? Io non ho mai potuto lavare la mia anima dal dolore immenso che ho vissuto. La violenza mi è stata compagna di casa per moltissimi anni. L’ho nascosta, l’ho ammantata di veli razionali. Oggi se sento un urlo aggressivo, dove si ammanta la violenza, mi spavento ancora.
E quando qualcuno paragona mio figlio a mio padre, tremo, ogni centrimetro della mia pelle si solleva. Vorrei urlare che non è vero, quell’uomo che era non sarà mio figlio. Due occhi uguali non significano nulla, eppure… era una forma di malattia che sento nella mia epidermide, eppure ho paura.
Non ho mai raccontato nulla di tutto ciò a loro, i figli. E oggi che mi chiedono ricordi e memorie della mia infanzia, quando ogni centimetro del mio corpo cercava di proteggermi dall’esterno che mi opprimeva, invento spesso. Ma non torna loro, crescono e chiedono. E io ho paura di raccontarlo. Al buio della notte, ho paura. Perchè non passa mai.
Al buio di poche lampade accese, so che la mia eredità emotiva è anche questo, quel non detto passato tra un mutismo rassegnato e una litigata inventata. La violenza è spesso domestica, so riconoscere a pelle linguaggi e gesti di chi vive un ambiente violento, di chi vive un animo aggeressivo.
Noi donne, noi mamme dovremmo agire sempre per difendere i nostri bambini, le nostre bambine dalla violenza. Il silenzio non aiuta. Esplode il silenzio, esplode in mille traumi e complessi passati con il liquido amniotico.
La colpa è come un virus, infetta tutto e tutti. Ce l’hai sottopelle, lì. Stai male, senti che qualcosa non va, non funziona, ma non sai perché. Eppure c’è, un non detto, un nome saltato. Oppure c’è la terribile giustificazione di sempre, è malato, è malata.
NO CAZZO. E’ violento. Va allontanato. VA ALLONTANATO.
Ancora oggi vado a letto con l’ansia, non dormo se non mi ninno con favole e storie meravigliose. Il sonno tarda sempre ad arrivare, l’emergenza vive in me come allora. Poi il silenzio prende il sopravvento, i miei sensi si placano e abbraccio la notte. La paura è la mia compagna notturna. Ancora oggi”
In memoria di tutte le bambine che hanno ricordi violenti, perchè #nonunadimeno, mai nessuna sia lasciata sola, mai ci si senta cattive o sbagliate per responsabilità di altri. Ogni adulto deve proteggere suo figlio, sua figlia.
Per te, amica mia, che tu possa dopo oggi dormire serena, almeno per una notte, quando i tuoi ricordi riposano altrove.
Arianna
Cara Arianna,
mi sono molto emozionata a leggere questo post così crudelmente vero e per questo così triste.
” Oggi se sento un urlo aggressivo, dove si ammanta la violenza, mi spavento ancora”, succede anche a me, se sento un urlo corro a nascondermi perchè anche io ho avuto una infanzia dove c’era violenza tra i miei genitori e verso noi figli, ed anche io ho ammonticchiato questi dolori in fondo all’anima, pian piano, uno sopra all’altro fino a farli diventare una montagna. Era paura, dolore, volgia di eesere protetta, voglia di non dover essere sempre matura e “grande”, voglia di vivere la mia infanzia senza problemi ed invece purtroppo è andata come è andata. Ma questo mi ha segnato, ci ha segnato, e spero solo , di tutto cuore, che mi abbia INsegnato a cambiare e ad essere diversa, ad affrontare la vita con più dignità e ad insegnare a mia volta ai miei figli che una vita diversa può esistere.
Ti ammiro Arianna, che hai il coraggio di scrivere queste cose così dolorose, e ti ammiro per il difficile cammino che hai fatto che ti ha però permesso di diventare la donna meravigliosa che sei oggi.
Un abbraccio forte.
P.S.
Sto maturando la convinzione che i silenzi e le invenzioni non facciano bene ai nostri figli.
Credo che anche loro meritino la verità su quello che è stata la nostra vita. La meritano perché anche loro percepiscono nei nostri comportamenti qualcosa che “non torna”.
SEMPRE LA VERITA’
Ciao Fabiola, è una catena che non finirà mai se non abbiamo per prime il coraggio di interromperla. Parlandone.
E’ l’unico modo, senza vergogne.
Ti abbraccio,
Arianna
Un abbraccio Arianna…
Grazie Anna